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Tragedia del Vajont: il ricordo di mio papà

“Stefania vieni devo farti vedere una cosa che non dovrai dimenticare, mi disse il mio papi un 9 ottobre di molti anni fa”.

Scendemmo in taverna e mi mostrò un attestato incorniciato che si perdeva tra i tanti  che coprivano quella parete. Avevo già visto il suo nome al centro di un’immagine che rappresentava una distesa di macerie, ma ero troppo piccola per chiedermi cosa fosse.

Questo è un riconoscimento che Andreotti ha spedito a noi Alpini, dopo la tragedia nel Cadore del 9 ottobre 1963″.  

Il suo tono era sceso, ho pensato stesse trattenendo una commozione, così gli chiesi di raccontarmi tutta la storia….

Era circa mezzanotte quando la sirena della caserma, dove facevo il militare a Pieve di Cadore, ha iniziato a suonare. Radunati sul piazzale ci avvisarono che la diga del Vajont era crollata.

Era tutto quello che sapevano, in pochi minuti salimmo sui camion e partimmo nella notte.

Arrivammo all’una, c’era un buio pesto. Senza pile e torce non ci rendemmo conto di niente, non vedevamo niente, ma quelle urla, quelle grida, i pianti e gli animali che si lamentavano li sento ancora forti nella testa.

Appena arrivò l’alba lo scenario che ci trovammo di fronte era indescrivibile, una distesa di sabbia e fango e nient’altro: il paese non c’era più.

Avevo 18 anni, come puoi non restare senza fiato di fronte a uno scenario apocalittico? Eppure non ci hanno permesso di commuoverci, di vivere il nostro dolore, di fermarci un attimo, di capire, dovevamo agire e subito.

Ci hanno dato una mappa del paese, ci hanno diviso per zone e armati di pala e picconi abbiamo iniziato a scavare dove si presumeva dalla mappa ci fosse stata una casa.

Dovevamo trovare i superstiti tra quel ammasso di macerie e morti..

Tutti i corpi nudi ormai senza vita che trovavamo sul cammino venivano deposti su delle barelliere e trasportati in un campo.

Braccia, toraci, gambe e pezzi di corpo venivano messi su una fossa comune, le teste mozzate invece erano destinate al campo per il riconoscimento.

Ci avevano spiegato come fare una finta sagoma di un corpo coperta con pezzi di stoffa e coperte, lo si faceva per non scioccare i parenti che sarebbero arrivati per il riconoscimento.

Un giorno sentiamo delle grida di bambino, ce n’erano due. Il pavimento della loro casa era crollato e sono caduti in cantina, si sono salvati grazie alle travi che hanno fatto da protezione. Uno dei tanti miracoli che abbiamo visto.

Ma non c’era tempo da perdere, dovevamo andare avanti.

Sono stati 20 giorni in cui siamo stati tutti, non solo io, ingoiati nell’orrore.

Quando faceva buio non tornavamo in caserma subito, ci avevano chiesto di restare fino a tardi per non abbandonare la gente superstite, dovevamo parlare con loro, confortarli, farli sentire protetti, far capire loro che non erano soli.

Tu pensa a 18 anni cosa mai posso aver detto a quella povera gente.

Se tu vedi quello che abbiamo visto noi, non puoi dimenticare, è una ferita che si riapre ogni volta che il calendario segna il 9 ottobre.

Ne avrei tante da dire, come li hanno ammazzati due volte gli abitanti di quei posti, ma oggi non è giusto farlo, oggi è una ricorrenza che deve essere segnata dal silenzio, per non dimenticare le vittime di quella strage annunciata e purtroppo ben organizzata.

La mia compagnia era il 7° reggimento degli Alpini di Pieve di Cadore”.

Questo è il testo che io leggo ogni volta che scendo in taverna e butto l’occhio su quella foto dove al centro c’è il nome GINO ZILIO e sotto c’è una distesa di macerie bianche come sfondo.

Ci sono tante catastrofi che mi commuovono, come il terremoto della mia terra friulana del 1976 che ho vissuto, ma questa del Vajont è una tragedia che fa male , forse perché il racconto di mio papà, così pieno di dettagli, mi ha fatto vivere i fatti come fossi stata lì, sentendo con il suo cuore e vedendo con i suoi occhi.

A tutti gli Alpini di quel tempo che con umanità hanno cercato di rendere meno pesante la tragedia ai superstiti un GRAZIE enorme.

Ecco l’ attestato di benemerenza del Ministro Andreotti

Quando una immane sciagura si era abbattuta sulle popolazione del Cadore, i militari accorsero a portare l’aiuto che essi solo in quelle circostanze potevano dare, prodigandosi in comunione di dolore oltre i limiti del dovere rintracciarono e composero i morti, riaprirono le strade, gettarono i ponti, donarono ai superstiti il conforto di una assistenza fraterna, fiorita d’amore. Mentre i morti raggiungevano la pace, coloro che erano rimasti ritrovavano la speranza perché sentivano che attraverso i suoi figli alle armi, tutto il popolo italiano era presente con la decisa volontà di aiutarli a riprendere il cammino.

Ministro Andreotti

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