Real Life

Il mio ospedale immaginario

Non avevo avuto l’onore di vederli in azione, ieri è successo e ho visto il loro lavoro straordinario.

Te lo racconto per filo e per segno.

La segnaletica indica di girare a destra, un dedalo di curve ti porta al parcheggio e inizi a sentire che l’aria sta cambiando.

In questo posto vibra un’energia pesante, i rumori sono in bianco e nero, le voci sono in bianco e nero, le persone sono in bianco e nero.

Ci si entra per nascere e per morire, in entrambi i casi si soffre. Tra l’inizio e la fine ci sono i reparti:  gli acciacchi, gli intoppi, gli sgambetti e le pause.

Ho paura degli ospedali, mi manca l’aria, mi sento opprimere come fosse una mano che spinge sul petto e non mi fa respirare.

Fatico a sopportare le sofferenze delle persone perché mi arrivano tutte, vorrei rimbalzassero sul mio corpo, invece mi penetrano e sto male.

Ipersensibilità e non è un bene.

I corpi si curano, ma le anime, mi chiedo mentre entro nel reparto dove è ricoverata Maria.

NEL MENTRE PENSO:

Qualcuno sa che dentro un involucro malconcio esiste un’anima, una piuma leggera e bianca che ha una vita tutta sua, che non combacia con il corpo a meno che tu non la voglia far combaciare?

Qualcuno ha pensato che se hai uno spirito allegro e fiducioso quella piuma può pesare come l’Everest?

Mentre la mia amica aiuta la mamma a sistemarsi, io mi perdo nei miei pensieri.

Immagino un mio ospedale: le stanze colorate, i letti con i materassi in memory, le lenzuola profumate e morbide.

Dall’estremità del letto si alza un monitor, cuffiette nelle orecchie e si parte alla ricerca del programma preferito, zigzagando a piede libero tra un eroe che salva il pianeta o una tigre che conta i bufali di un branco, un orso che fa da babysitter ad una bambina o la D’Urso con il suo show, un dibattito politico o un film romantico.

L’importante è che tu non pensi, l’importante è che i tuoi neurotrasmettitori riposino, come i pensieri negativi, che la smettano di lavorare solcando tracciati di pessimismo.

Quelle ore servono per rilassare la tua mente, per stare bene.

Ho immaginato un vassoio di cibo buono, curato, preparato da chef che invitano ad amarti, che accendano i cinque sensi e ti facciano sentire un Re.

Ho immaginato un parco con alberi e animaletti, tavoli con sedie comode, coach motivazionali, corsi di lingue, letture di libri, laboratori di pittura, tavole rotonde, i clown.

Clown?

Eh no quelli non posso essermeli immaginati, i clown sono proprio di fronte a me!

Mi trovo in una  stanza con le pareti bianche, i letti sono quattro, le ammalate sono quattro. I parenti sono tristi, alcuni distrutti, di lì a poco qualcuno lascerà questa terra.

Il cibo arriva coperto da involucri di plastica che nascondono una minestrina stracotta, il gettonato puré di patate e un macinato di prosciutto cotto che sembra un didò rosa pallido indurito, una mela raggrinzita su se stessa e l’ultima acquolina in bocca secca come tutto il resto.

Ti spetta il peggio perché siamo alla fine?

Si respira la morte, il dolore.  

Quattro occhi  fissano la parete di fronte, due sono immobili, zitti, inermi.

Ad un tratto nella stanza in bianco e nero si accende la vita.

Colori,  sorrisi,  scherzi,  bolle e  scritte fluo sui camici, nasi rossi,  orme sul viso,  forza e coraggio. Un fulmine a ciel sereno che rischiara il bianco e nero, tempra le sofferenze e ti spinge ad un sorriso.

Un risveglio ai neurotrasmettitori provocato da una scossa, una miccia che fa ripartire il motore in avaria, una ventata di vita che sfreccia nella tue membra come un bolide e le persone profumano per un attimo di essenza di vita.

E’ la terapia del sorriso e funziona davvero, è provato, non si pensa al dolore, tanto che ridere riduce l’ansia e provoca la secrezione di beta-endorfine e catecolamine che sono analgesici naturali apportatori di sensazioni di benessere.

Funziona davvero!

Nel mio ospedale immaginario ce ne sono tanti che lo fanno per lavoro, non sono volontari, loro portano vita e sono bravi, ma ricevono un lauto stipendio.

Nel mio ospedale le persone sanno di avere una malattia , ma non vivono la degenza come un incubo, sanno che è solo un pitstop e sono sereni.

Nel mio ospedale quando il tuo viaggio è alla fine,  puoi decidere di andartene non soffrendo più, oppure lo deciderà chi ti ha tanto amato.

Quello che ho visto nel reparto di geriatria ha dell’incredibile.

Ma siamo fatti così, non molliamo, anche se il corpo ci ha salutato da anni, noi non molliamo, non vogliamo lasciare andare chi vuole andarsene. Siamo egoisti, il dolore della perdita è solo rimandato.

Meno male ci sono loro, i Dottori Clown, a ricordarci che un sorriso può fare miracoli portando la luce nel buio delle tenebre.

 

 

author-sign

Ti potrebbe piacere anche...

Articoli popolari...

2 Comments

  1. Gli ospedali sono una cosa terribile. Sale di tortura dove dio… non c’è.
    Lì non c’è vita: c’è solo sopravvivenza e pianti.
    Qualche volta penso che forse era meglio quando non c’era la medicina: si crepava e via. In mezzo a un bosco, in una capanna di paglia.
    Certo la vita media ora è più lunga, ma non la salute: gli acciacchi iniziano sempre alla stessa età, ma la medicina li….”tampona”: non li guarisce ma te li rende sopportabili e trascinabili fino alla tomba.
    La medicina moderna non fa altro che….mantenere in vita, spostare più in là il momento del grande salto. Ma secondo me è più importante la qualità che la quantità.

  2. GRAZIE per il tuo commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *